“Il grano non dà grano. Quest’anno l’agricoltore registra una perdita che oscilla dai 100 ai 300 euro ad ettaro in Emilia-Romagna”
Confagricoltura, Cia e Copagri dell’Emilia-Romagna denunciano: “A rischio un comparto strategico dell’economia regionale che vale 260 milioni di euro su una produzione agricola 2015 di 4,2 miliardi”
Bologna, 28 luglio 2016 – “Cosa seminiamo in autunno?”. Si chiedono sconcertati i cerealicoltori di lungo corso che negli anni hanno trasformato l’areale emiliano-romagnolo in un granaio di qualità. Qui si concentra sia il 30 per cento della produzione italiana di grano tenero su una superficie di oltre 140 mila ettari, sia la più vasta estensione di terreni coltivati a duro del Nord Italia (65 mila ettari).
«Il grano non dà grano. Quest’anno l’agricoltore registra una perdita che oscilla dai 100 ai 300 euro ad ettaro in Emilia-Romagna». Denunciano Confagricoltura, Cia e Copagri dell’Emilia-Romagna in una conferenza stampa presso la Borsa Merci di Bologna: «A rischio un comparto strategico dell’economia regionale che vale 260 milioni di euro su una PLV-produzione agricola 2015 di 4,2 miliardi».
Marco coltiva 24 ettari di grano tenero nella bassa bolognese, ebbene quest’anno ha registrato una perdita secca di 90-100 euro ad ettaro (incluse tasse, oneri contributivi e assicurazioni). Stesso discorso per Massimo nell’Imolese, che possiede la metà dei terreni in affitto. «Nel 2015 ho chiuso in pareggio, ma coi prezzi attuali – ribatte – conto di perdere 100 euro ad ettaro nonostante l’ottima resa nei campi, pari a 90 quintali ad ettaro». Nel nostro areale, avverte, “saranno sicuramente ‘liberati’ entro l’anno molti degli ettari locati”. Spostandosi verso Ravenna e Forlì, la situazione addirittura peggiora. Roberto su 30 ettari a tenero e 12 a duro, ha calcolato un deficit di 300 euro ad ettaro. Quindi “per il momento non vende e attende speranzoso le quotazioni future, a novembre-dicembre”. Un’azienda ferrarese di 50 ettari, invece, ha già conferito il grano tenero raccolto a 15 euro al quintale “accontentandosi” di un meno 125 euro ad ettaro.
Duro l’attacco del presidente di Confagricoltura Emilia-Romagna, Gianni Tosi: «Certo, i conti non tornano. Il prezzo è lo stesso di 30 anni fa e solo nell’ultimo anno ha perso il 42%. In più, la beffa, il prodotto italiano è pagato meno di quello importato. Il sistema agricolo non può reggere quotazioni così basse con costi di produzione che non sono ovviamente quelli degli anni Ottanta. Le Istituzioni devono lavorare insieme ad un piano cerealicolo nazionale che preveda investimenti nell’ammodernamento delle strutture di stoccaggio per qualificare il grano made in Italy; l’accertamento delle giacenze, rendendo obbligatoria la comunicazione annuale delle scorte al Mipaaf entro il 31 maggio; il monitoraggio delle importazioni e dei flussi di cereali all’interno dell’Ue; la verifica delle superfici coltivate e della produzione potenziale traendo i dati dai fascicoli aziendali. Un piano che dia vita ad un tavolo di filiera con l’obiettivo di responsabilizzare gli operatori ad una più equa ripartizione della redditività e ad operare uniti per un ‘sistema Italia’, a partire proprio dal contrasto ad ogni forma di speculazione».
Non smorza i toni Cristiano Fini vice-presidente di Cia Emilia-Romagna. «Se le quotazioni non tornano a salire, riconoscendo al frumento made in Italy il giusto valore, faremo lo sciopero della semina». E lancia una proposta al Governo: «Stop alle importazioni di grano per 15/20 giorni, così da ridare fiato agli agricoltori in crisi. In queste condizioni, noi, non seminiamo. Anche perché attualmente gli agricoltori producono grano di qualità ma in perdita (17/18 euro al quintale per il frumento duro, largamente al di sotto dei costi di produzione) e la situazione non può restare questa. L’Italia ha una forte tradizione cerealicola, ma le speculazioni di mercato la stanno spazzando via».
Conclude: «Si sta assistendo a comportamenti di vero e proprio sfruttamento. Oggi il raccolto di 6 ettari seminati a grano basta appena per pagare i contributi di una famiglia media agricola».